“Morti nella solitudine”
Una pesante nebbia ammanta il Santuario della Madonna dello Zuccarello, a Nembro, uno dei centri della provincia di Bergamo più colpiti dalla pandemia.
Matteo Cella è il parroco di questa comunità da dieci anni. La sua messa serale spesso si trasforma in una commemorazione delle vittime del coronavirus.
Fra marzo e aprile quasi il 2 per cento della popolazione di Nembro ha perso la vita. “Dentro questo numero – dice Don Matteo – ci sono alcune persone molto significative per la storia della comunità. C’era un’ostetrica di 58 anni, una volontaria della parrocchia, molto conosciuta, che aiutava tutte le mamme in difficoltà, che è morta dopo aver accudito la mamma anziana, morta anche lei per Covid. Lei è stata ricoverata ed è morta la settimana dopo. Era diventata nonna da pochissime settimane”.
Una strage senza fine, continua: “C’è stato un giorno di marzo in cui il telefono della parrocchia è squillato 16 volte per annunciare la morte di qualcuno”
Il tasso di mortalità è quadruplicato. Le campane delle chiese hanno smesso di suonare a morto, per non alimentare ansia e paura. Le pompe funebri faticavano a reggere il ritmo, i funerali sono stati sospesi. “Venivamo qui con pochissime persone – ricorda Don Matteo -, solo familiari stretti, e celebravamo un brevissimo rito di sepoltura, una benedizione della salma e del posto dove veniva sepolta, un momento che durava pochi minuti ma erano pochi minuti davvero molto intensi, perché era l’unico linguaggio che c’era per poter accompagnare, restituire un po’ di umanità a quel passaggio della vita che invece era stato così trascurato, perché molti sono morti nella solitudine, lontano dai propri cari”.
“Adesso si lotta”
Sara e Diego sanno che cosa significa veder sparire i propri cari, “morti nella solitudine”, come dice Don Matteo. Lui ha perso nel giro di quattro giorni entrambi i genitori. Nello stesso periodo è morto anche il padre di lei. Diego è amareggiato: “Un uomo che ha dato la sua vita per i figli è morto da solo, senza i suoi figli accanto. Mia mamma uguale. Un sistema che ci ha tolto ogni diritto”.
La storia di Sara è simile: “Anche papà era giovane, aveva 67 anni e non aveva patologie, stava benissimo. Era da 5 giorni a casa con la febbre che non scendeva. Il medico di base e l’Ats dicevano che se non aveva problemi respiratori e non aveva avuto contatto coi cinesi non era coronavirus, quindi potevamo star tranquilli, era semplicemente un’influenza. Però la febbre non scendeva. Quindi mia mamma si è decisa a portarlo al pronto soccorso, al Papa Giovanni, e mio papà con le sue gambe è andato in macchina, hanno guidato fino all’ospedale, è entrato ed è stata l’ultima volta che l’abbiamo visto”.
Sara e Diego si sono incontrati durante il lutto, ora vivono insieme e fanno parte del Comitato Noi Denunceremo, che chiede “verità e giustizia per le vittime del Covid diciannove”. L’associazione cerca i responsabili di questa strage che ha colpito prima la Lombardia e poi il resto d’Italia.
“Sono arrabbiato perché sono andati via troppo presto – lamenta Diego. – Non doveva andare così. Non se lo meritavano. Come non se lo meritavano altre 60 mila persone. Famiglie rovinate e cambiate per sempre per colpa di questo maledetto. Adesso si lotta. Si lotta per la giustizia, si cerca di capire cosa si può fare e cosa non si può fare, se ci son delle regole vanno seguite, e basta”.
Peggio che in Afghanistan
A Milano il Drive Through di via Novara effettua fra i 300 e i 500 tamponi al giorno. Uno dei medici è il capitano Karim Rachedi, veterano che ha lavorato in Afghanistan e in Libano, prima di trovarsi in prima linea sul fronte del Covid-19, inviato con urgenza durante la prima ondata a Bergamo.